«Beethoven and the Piano»

Conferenza «Beethoven and the Piano: Philology, Context and Performance Practice», online (Zoom), 4-7 novembre 2020, Lugano

Inizio della sonata per pianoforte op. 109 nel manoscritto di Ludwig van Beethoven. Foto: WikimediaCommons

L’evento è nato da una collaborazione tra la Hochschule der Künste di Berna e il Conservatorio della Svizzera italiana di Lugano, con il supporto scientifico della Beethoven-Haus di Bonn e della Società Italiana di Musicologia. Circa 170 i partecipanti che si sono riuniti online per seguire le relazioni dei 18 studiosi (ed esecutori) tra i maggiori esperti del pianismo beethoveniano nel panorama internazionale.

Filologia, contesto e prassi esecutiva: queste tre discipline hanno prodotto innumerevoli studi sulle opere pianistiche di Beethoven, a partire dal periodo immediatamente successivo alla morte del compositore fino ai giorni nostri. Nonostante la qualità e quantità dei contributi, questa letteratura presenta ancora numerose zone d’ombra, la cui comprensione ad oggi risulta limitata.

Negli ultimi anni, un approccio particolare ha contribuito a portare alla luce importanti dettagli sull’interpretazione del repertorio Classico. Si tratta della ricerca artistica, come spiegano Thomas Gartmann, direttore del dipartimento di ricerca della HKB, e Christoph Brenner (diretto del CSI); l’unione della prospettiva scientifica e di quella artistica può giocare infatti un ruolo fondamentale nell’interpretazione di un testo musicale, aprendo un ventaglio di nuove ed interessanti prospettive esecutive.

Gli interventi del convegno hanno indagato: i cambiamenti socio-culturali che hanno segnato la diffusione e circolazione delle edizioni musicali di Beethoven; l’evoluzione della notazione musicale, che da quella «essenziale» del periodo Classico muoveva verso un maggior grado di specificità; la rapida e diversificata evoluzione organologica del pianoforte, che ha offerto al compositore nuove possibilità espressive. Due concerti nell’Aula Magna del CSI — trasmessi in diretta streaming — hanno inoltre rappresentato la dimostrazione sonora della fusione tra ricerca scientifica e pratica musicale. Nel primo, la fortepianista Olga Pashchenko ha proposto un’esecuzione di un programma interamente dedicato a Beethoven ed eseguito su due diversi pianoforti storici. A seguire, lo Zefiro Ensemble e il pianoforte storico di Leonardo Miucci (anche referente della conferenza), hanno invece accostato il Quintetto op. 16 di Beethoven a quello KV 452 di Mozart, invitandoci a cogliere le longues durées mozartiane nelle opere giovanili beethoveniane.
 

«Reading between the lines»

Una delle tematiche più discusse nei quattro giorni di convegno è la stretta relazione tra notazione musicale e prassi esecutiva. Lo studio di tutto ciò che il compositore si aspettava fosse implicitamente comunicato all’esecutore nella tradizione del testo musicale, è il punto focale dell’intervento di Clive Brown (Universität für Musik und darstellende Kunst di Vienna). «Leggere attraverso le righe», spiega, significa non solo ricostruire le indicazioni implicite nei testi musicali, ma anche comprendere la casistica in cui fosse legittima, e anche prevista, una «deviazione» dal testo stesso. Le ornamentazioni improvvisate, l’arpeggio di accordi, l’uso della flessibilità ritmica e del tempo rubato: questi alcuni tra i mezzi espressivi che il pianista, una volta acquisita una «corretta» interpretazione della notazione, potrà sfruttare al fine di produrre una «bella» esecuzione.

Anche Sandra Rosenblum, autrice di Prassi esecutive nella musica pianistica dell’epoca Classica (1991), si sofferma sul significato del testo musicale. Prendendo in esame differenti edizioni del Quintetto op. 16 per pianoforte e strumenti a fiato di Beethoven, la ricercatrice ci mostra come, nei primi anni dell’Ottocento, esse presentassero talvolta contenuti variabili: dalla collocazione delle indicazioni di pedale fino ad un uso indifferenziato dei segni di articolazione e dinamica. Al fine di comprendere se queste differenze fossero dovute a precise intenzioni esecutive oppure a semplici ragioni commerciali, le singole varianti necessitano di essere analizzate alla luce delle singole pratiche di commercio editoriale.

È ancora la contestualizzazione delle prassi esecutive, compositive e notazionali a dare spazio ai successivi tre interventi: Neal Peres da Costa (Sydney University) si occupa della pratica non scritta di «arpeggiare» gli accordi nella musica pianistica di Beethoven; Dorian Komanoff Bandy (McGill University di Montreal) si sofferma sulla trasformazione nell’uso degli abbellimenti melodici; Marten Noorduin (Oxford University) mostra l’evoluzione di segni di espressione come dolce o calando durante il corso della vita del compositore. Claudio Bacciagaluppi (HKB) consegna inoltre un’interessante prospettiva sulla storia della ricezione beethoveniana attraverso il contributo dell’editore svizzero Hans Georg Nägeli.

Tornando al significato del testo musicale, Yew Choong Cheong (UCSI University Institute of Music di Kuala Lumpur) e Leonardo Miucci (HKB) propongono due interventi interconnessi. Il primo introduce la complessa casistica in cui una certa flessibilità di tempo e ritmo fossero implicite nei segni di dinamica e di accentuazione, il secondo, si concentra sulle istanze particolari in cui Beethoven sembrerebbe comunicare intenzioni agogiche attraverso indicazioni di crescendo e diminuendo. Un altro brillante contributo sulla relazione tra notazione e prassi esecutiva è quello di Siân Derry (Royal Birmingham Conservatoire), che ci consegna una nuova e convincente prospettiva su di un dibattito di lunga data. La ricercatrice affronta la figurazione con note unite da legature di valore e diteggiatura differenziata (si vedano gli esempi dell’op. 106 e il recitativo dell’op. 110). Prendendo ad esame uno schizzo di Beethoven datato ca. 1790, la studiosa e pianista ricostruisce l’influsso di una particolare tecnica esecutiva per strumenti ad arco, il cosiddetto «tremolo ondulé», sull’immaginario pianistico del compositore. Egli ne avrebbe infatti ripreso il significato espressivo, dispiegandolo nel linguaggio pianistico tramite l’aggiunta di diteggiature peculiari. Gli schizzi sono nuovamente una tematica cruciale nella presentazione di Susanne Cox (Beethoven-Haus Bonn), che concentra la sua attenzione sul concetto beethoveniano di «opera» attraverso le fonti manoscritte. Christine Siegert (attualmente Leiterin des Beethoven-Archivs und des Verlags Beethoven-Haus) tratta invece l’evoluzione dello stile compositivo dell’autore che, animato dalla ricerca di un linguaggio pianistico individuale, andava lentamente discostandosi dai canoni estetici del pianismo brillante viennese, e quindi dalla tradizione mozartiana.
 

I pianoforti di Beethoven

L’indagine di Michael Ladenburger (ex direttore del museo e custode della collezione della Beethoven-Haus di Bonn) ci catapulta in una dimensione differente, e cioè nelle botteghe dei costruttori di strumenti nella Bonn degli anni 1770, le quali tastiere hanno influenzato e ispirato l’attività del giovane Beethoven. In quegli anni i pianoforti stavano evolvendosi con estrema rapidità; i loro costruttori non solo producevano un numero sempre maggiore di strumenti, ma sperimentavano anche costantemente con questi, creando, anche in una stessa città, esemplari completamente diversi tra loro sia per costruzione che per possibilità espressive. La comprensione dell’influsso di queste caratteristiche sonore e costruttive sulle prassi esecutive e compositive di Beethoven è stata quindi una tematica molto presente nel convegno. Della risposta compositiva alla graduale estensione della tastiera (che partiva dalle cinque ottave), parla Martin Skamletz, direttore dell’Institut Interpretation della HKB. Una riflessione necessaria per i musicisti specializzati su strumenti storici ma ancora importante per i pianisti di oggi che, nonostante la relativa standardizzazione dello strumento moderno, ancora affrontano la necessità di adattarsi ad un tasto leggermente più pesante o, nel caso di alcuni nuovi modelli della Bösendorfer, la possibilità di sfruttare o meno un’estensione maggiore della tastiera.

Passando al periodo viennese, Robert Adelson mette fine alle controversie sul presunto acquisto da parte di Beethoven del pianoforte francese Érard. Portando all’attenzione nuovi e inconfutabili documenti, Adelson conferma la teoria del regalo da parte del costruttore e specula che, piuttosto che un riconoscimento della sua fama, esso potesse far parte di un più vasto accordo editoriale con la ditta. Il fortepianista Tom Beghin continua il discorso sulle caratteristiche costruttive e sulle qualità sonore dello strumento francese, facendone un uso immaginativo al fine di sviluppare nuove idee nella sua pratica allo strumento.

Una particolare caratteristica di alcuni pianoforti del costruttore Anton Walter, i quali strumenti Beethoven aveva posseduto ed apprezzato a Vienna, è invece spiegata e dimostrata dallo studioso e tastierista Tilman Skowroneck. Il ricercatore si sofferma sul funzionamento del cosiddetto «split damper pedal», un dettaglio costruttivo che aveva già anticipato nel suo volume Beethoven the Pianist (2010). Il meccanismo permette di sollevare solo gli smorzatori delle corde nel registro acuto della tastiera, alternativamente all’intera casa degli smorzi, tramite una separazione (o «split») nel pedale stesso — in questo caso una ginocchiera. Tornando sul piano notazionale, Barry Cooper (University of Manchester) propone un’analisi dei segni di pedale negli autografi, negli schizzi ed edizioni a stampa beethoveniane. Autore di diversi libri monografici sul compositore e curatore di un’edizione pratico-interpretativa delle 35 Sonate, lo studioso si chiede infine quanto siano affidabili le moderne edizioni musicali nel rappresentare con esattezza le posizioni originali dei segni di pedale. Quale sarebbe, oltretutto, il significato di queste indicazioni realizzate su pianoforti moderni e con una tecnica pianistica moderna? Quest’ultima provocazione, posta dallo studioso Mario Aschauer (University of Texas a Huntsville), suona più come una domanda retorica all’interno del suo contributo. L’invito ai curatori moderni è quello di presentare in modo intelligibile le ambiguità proprie delle fonti musicali, affinché esse stesse possano consegnare indizi sul mondo e sul pensiero di Beethoven. Quest’ultima riflessione ha infine animato la tavola rotonda che ha concluso il convegno, mediata dal curatore e manager della casa editrice Bärenreiter, Douglas Woodfull-Harris. Quale dovrebbe essere l’attitudine dei curatori nella preparazione delle moderne edizioni critiche/urtext? In che misura sarebbe egli inoltre responsabile della consegna, unitamente al testo, delle relative chiavi di lettura?

Sono stati inoltre discussi i limiti e vantaggi dei nuovi formati digitali e introdotti nuovi progetti editoriali riguardanti il genio di Bonn. La discussione si è infine spostata sulla responsabilità dei giovani studenti di musica e dei loro insegnanti, come sottolineato dalla Rosenblum. Con gli strumenti storici, le nuove edizioni critiche e gli studi di prassi esecutiva, possediamo potenti mezzi per la comprensione del linguaggio beethoveniano e del periodo Classico.

Il desiderio che ha mosso gli organizzatori della conferenza si è infine realizzato. Nascendo dal fecondo contatto tra studiosi di diverse aree di competenza ed artisti, l’evento ha sicuramente ispirato e informato i molti giovani interpreti che vi hanno partecipato.

Con questo in mente, il volume di atti di convegno (pubblicato dalla casa editrice Argus) è programmato per il 2021.

Das könnte Sie auch interessieren